Succulente: Con spine

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Succulente con spine

Alcuni sostengono che le piante grasse o si odiano o si adorano, sono piante che non lasciano indifferenti. C’è chi prova per questi sgraziati obbrobri della natura, irti d’orrende e fastidiose spine, un odio viscerale e chi ne fa oggetto d’amore e cure maniacali, nella paziente attesa di ammirare fiori tanto belli e colorati quanto effimeri. Poche altre sono le categorie di piante che hanno conquistato un seguito così grande d’appassionati. Forse, sotto certi aspetti, possono essere paragonate alle orchidee: il fascino dell’esotico, la forma curiosa, la rarità di certe specie. Ma rispetto a queste richiedono un impegno minore e ciò le rende appetibili per un pubblico ben più vasto.

Generalmente è uso fare riferimento alla famiglia delle Cactaceae usando il nome di piante grasse. In realtà, a voler essere corretti, in questa categoria dovrebbero essere comprese però tutte quelle piante che hanno organi adatti ad accumulare l’acqua indispensabile per superare lunghi periodi di siccità. Quindi sarebbe necessario includere tra le piante grasse anche molte altre specie che appartengono a famiglie differenti. Per fare riferimento alle Cactaceae in particolare è più corretto usare l’appellativo di “cactus”, un termine che fu coniato da Carlo Linneo e che deriva dalla contrazione della parola “Echinomelocactos”. Nome con il quale, in origine, erano chiamate le specie appartenenti al genere Melocactus, probabilmente uno dei primi componenti della famiglia a raggiungere l’Europa dal continente americano.

Le Cactaceae sono piante che si sono adattate a vivere in condizioni d’aridità estrema, sono in grado di sopportare lunghi periodi di siccità senza mostrare segni di sofferenza. Hanno fusti carnosi e arrotondati, spesso con stipite unico e ingrossati a forma di barile, oppure colonnari e ramificati, sempre capaci di accumulare grandi quantità d’acqua. Queste piante sono solite vivere per lunghi periodi in una sorta di stasi, pronte a risvegliarsi in ogni momento per approfittare delle piogge appena cadute. Quando ciò accade essi ricaricano rapidamente le riserve, i fiori sbocciano, i frutti maturano ed i semi sono in breve pronti a disperdersi nell’ambiente, mentre la pianta si rimette in attesa della precipitazione successiva, che può arrivare anche dopo alcuni anni.

La maggior parte delle specie è priva di foglie, solo le Pereskia, che sono ritenute le componenti ancestrali della famiglia, hanno foglie ben sviluppate e funzionali. Tutte le altre o possiedono semplici abbozzi precocemente caduchi, come le Opuntia, o ne sono totalmente sprovviste. In genere è il fusto, variamente inciso da costolature e tubercoli, ad assolvere le funzioni di sintesi clorofilliana e di traspirazione.

Un aspetto che caratterizza tutte le Cactaceae è la presenza, sul fusto, di particolari cuscinetti lanosi e setolosi, le così dette “areole”. Questi organi equivalgono, in pratica, ai nodi delle piante normali dai quali si formano le gemme, le foglie, i fiori e i rami. Le areole sono strutture esclusive di questa famiglia e permettono ai botanici di individuare i suoi componenti in maniera univoca. Tuttavia, per i non addetti ai lavori, ciò che colpisce di più non sono tanto queste strutture, quanto la presenza più o meno costante delle spine ad esse associate e che, nei cactus, si manifestano nelle forme e nelle misure più diverse. Le spine possono essere piccole ed insignificanti oppure grandi e dalla forma insolita, pungenti oppure molli, bianche o variamente colorate di rosso o di giallo. Alcune hanno l’apice ricurvo ad uncino in maniera che, parti della pianta atte a riprodursi, restino impigliate nel pelo degli animali. Altre invece sono lunghe, massicce e rigide, con una punta molto affilata e fragile, adatta a penetrare nella carne e quindi spezzarsi in maniera da rendere la ferita più dolorosa. Quelle delle Opuntia sono le più fastidiose, sono tanto piccole che risultano quasi invisibili ad occhio nudo ma allo stesso tempo sono anche rigide e con l’estremità sagomata come i denti di una fiocina: penetrano facilmente nella pelle anche se sono solo sfiorate, si spezzano e poi è difficile estrarle.

Il ruolo principale delle spine è senz’altro quello di proteggere la preziosa riserva d’acqua accumulata nel fusto alla quale, specialmente in condizioni di difficoltà, molti animali ambiscono. Non è un caso se sotto le spine grandi e minacciose, tipiche dei Ferocactus e degli Echinocactus, si nasconde una polpa acquosa molto apprezzata e che, in paesi come il Messico, nei periodi di siccità prolungata, quando i pascoli non offrono altre risorse, è utilizzata per nutrire il bestiame. Anche le Opuntia sono commestibili ed entrano addirittura a far parte dell’alimentazione umana, soprattutto le pale più giovani e tenere, consumate bollite o fritte. In passato, in virtù della loro proprietà di mantenersi fresche a lungo anche dopo essere state recise, erano adoperate sulle navi per combattere lo scorbuto nei lunghi viaggi. La funzione protettiva delle spine è sottolineata anche dal fatto che proprio quelle specie che ne sono sprovviste risultano disgustose, amarissime, se non addirittura tossiche come Lophophora williamsi, il celebre peyote, pianta dalle note proprietà allucinogene.

Le spine, comunque, sono più che altro un deterrente, una minaccia enfatizzata anche dalla percezione umana, più di quanto in realtà risultano efficaci. Molti animali riescono in ogni caso ad accedere a questa risorsa e ciò suggerisce che l’utilità di tali organi vada oltre il semplice aspetto difensivo. In molti casi le spine servono ad ombreggiare la pianta e, insieme con le costolature, contribuiscono a creare un microclima tollerabile tra questo strato protettivo e l’epidermide. In specie come Epithelantha micromeris, in Mammillaria theresae e ancor di più in Mammillaria plumosa, che possiede lunghe spine pennate e flaccide che si sovrappongono a quelle vicine, questa funzione è immediatamente riconoscibile. In altre, forse, non è così evidente ma altrettanto efficace.

Un denso rivestimento è utile non solo a preservare i cactus dal sole cocente dei deserti più assolati, ma, in quelle specie che vivono a quote elevate sulle Ande, serve anche a bloccare i dannosi raggi ultravioletti e proteggere le piante dal freddo intenso nella stagione invernale. Le folte pellicce lanose del genere Espostoa e la densa trama di esili spine che contraddistingue i Cleistocactus sono esempi molto eloquenti di quest’adattamento.

Un‘altra funzione delle spine è anche quella di intercettare le precipitazione e soprattutto, quando queste mancano, fare da catalizzatore per l’umidità atmosferica. A questo servono le lunghe spine di consistenza papiracea e i tubercoli protesi verso l’alto di Leuchtembergia principis. In montagna, negli altopiani aridi del Messico centrale, nel corso del giorno, sotto il sole diretto, la temperatura può anche essere elevata ma durante la notte il termometro scende vertiginosamente e l’umidità atmosferica si condensa facilmente in goccioline. In questo contesto anche i cactus di piccola taglia approfittano di una tale opportunità. Pelecyphora aselliformis, ad esempio, raccoglie la rugiada con le sue spine pettinate e poi la convoglia verso la base del fusto attraverso un percorso tortuoso tra i tubercoli. Lo stesso fanno anche alcune specie di Turbinicarpus che possiedono spine porose come la carta in grado di impregnarsi d’acqua e quindi trasmetterla, subito dopo, direttamente alla pianta. In alcune regioni costiere del Cile e del Perù, dove la pioggia è un evento davvero raro, l’umidità atmosferica può rappresentare per le piante che vivono in qui luoghi l’unica opportunità di approvvigionarsi del prezioso liquido per molti anni.

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