Uso dell’olmo

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L’olmo è scomparso e quasi non ce ne siamo accorti

Se vi mettete a ricercare materiale sull’olmo, sull’impiego, sulla storia, sulle tradizioni scoprirete che c’è ben poco da trovare, soprattutto se operate un paragone con piante altrettanto note. Se poi limitate la vostra ricerca ad Internet i risultati sono ancora meno confortanti.

L’olmo apparteneva alla storia della nostra terra, ma ormai pare essere destinato ad un angolo buio della memoria poco conosciuto e non certo rinnovato dalla frequentazione.

A forza di cercare, comunque, qualcosa troverete.

Un legno particolarmente resistente

La tradizione vuole che il legno dell’olmo sia destinato non solo a mobilio di buona fattura, ma anche alla costruzione di quelle parti sottoposte a sforzi di torsione e trazione che più di altre potrebbero andare soggette al difetto dello spacco. Veniva, infatti, impiegato nella costruzione dei vecchi mulini ad acqua.

Questa sua caratteristica di particolare resistenza lo faceva scegliere anche per la fabbricazione dei ruzzoloni quando non fosse possibile trovare un pezzo di radica di noce disponibile e delle dimensioni richieste. Il ruzzolone altro non è che un disco di legno attorno al quale viene arrotolata una fune piatta così da poter essere lanciato con forza dal giocatore lungo un percorso prestabilito. Il disco di legno oltre all’impatto iniziale col terreno e all’usura è destinato ad urtare pietre, tronchi d’albero, paracarri di strade e tutto quanto si trovi sul proprio cammino: per questa ragione è richiesta una resistenza particolare.

Rispetto alla radica di noce i ruzzoloni così ottenuti potevano mostrare nel tempo una certa tendenza ad imbarcarsi disassandosi.

Il legno d’olmo arriva dai Balcani

La produzione nazionale è ormai del tutto marginale così che l’industria provvede ad importare legname dai paesi balcanici ed in particolare dall’area geografica dell’ex Jugoslavia.

Allo stato fresco il legno dell’olmo raggiunge un peso di circa 1000 kg. per metro cubo contro i 620 kg. di fine stagionatura.

L’alburno e il durame si differenziano in modo netto: chiaro il primo, bruno il secondo o anche rossastro. La lucentezza delle superfici radiali sono dovute ai raggi midollari molti fini.

La lavorabilità del legno è considerata ottima perché stagionatura, segagione, piallatura, fresatura, unione con chiodi o viti, incollaggio sono tutti di facile esecuzione.

La tinteggiatura con colori leggeri e non coprenti o la verniciatura a lucido danno risultati assai gradevoli. Tanto che per l’olmo si ricorre ancora alla tranciatura così da ottenere fogli di legno per rivestimenti e impiallacciature di pregio.

Oggi viene anche impiegato per la sua buona durabilità in parti esposte all’azione degli agenti atmosferici, in costruzioni idrauliche, per gli interni d’auto, per pavimenti, per intaglio o lavori al tornio.

I problemi che si possono incontrare sono essenzialmente dovuti alla morfologia stessa della pianta: cipollature, alterazioni cromatiche e, soprattutto, ad irregolarità del tronco per la presenza di grossi rami spesso inseriti piuttosto in basso.

Con la corteccia particolarmente fibrosa e resistente si facevano nel passato stuoie e cordami.

L’olmo e la vite: matrimonio ormai sciolto

Un tempo si poteva leggere che “la vite si maritava con l’olmo”. Un tempo andato perché oggi i sostegni ai moderni filari di viti sono fatti con pali di legno appositamente tagliati e impregnati per meglio poter durare nel tempo, se non si tratta di sostegni artificiali.

Le prime testimonianze scritte in proposito sono quelle di Columella e di Catullo che chiamava “vedova” la vite disgiunta dall’olmo.

Catullo non è rimasto il solo fra i poeti latini ad usare l’unione fra l’olmo e la vite come metafora di “unione necessaria” all’amore: Marziale, poeta diseguale per l’intonazione varia dei suoi versi, dal salace al nostalgico, dal lascivo al didascalico, descriveva così l’affetto degli sposi.

Una corona di vite, un ramo d’olmo ed un alcione poggiato sul braccio sono gli ornamenti con cui il mito classico ha rappresentato in forma di figura l’unione matrimoniale ed un amore indivisibile.

Nella vita agricola l’olmo ha rappresentato fino a non molti anni fa un’insostituibile risorsa alimentare per il bestiame perché quando si diceva genericamente “fare la foglia” significava raccogliere questo tipo di foglie. Le foglie d’olmo erano considerate un ottimo integrativo ai foraggi verdi per l’alimentazione dei bovini soprattutto per le vacche in lattazione. Oggi la validità di questo alimento non è messa in discussione, ma è divenuto più difficile poterne disporre in quantità significativa ed il costo di raccolta si rivela sicuramente antieconomico.

Tanti nomi che riportano ad una sola radice

E’ facile far discendere il termine italiano olmo dal latino ulmus che a sua volta deriva da un radicale comune a praticamente tutte le lingue di ceppo europeo. Il radicale “lm” è presente nel nome inglese elm, nel francese orme, nello spagnolo olmo, nel tedesco ulme, e ancor prima nel gallico lemos nel germanico elmla. Tutti questi modi di chiamare l’olmo hanno dunque un’origine comune ancor più antica.

Se nella mitologia dell’area germanica il primo uomo era chiamato Askr, e si poteva ricondurre alla figura del frassino cosmico, divinità maschile, la prima donna era chiamata Embla, identificabile con una divinità femminile e materna.

L’olmo, i sogni e la notte

Oneiros, figlio della Notte, dio dei sogni, o Morfeo, figlio del Sonno e nipote della Morte, dio delle chimere capace di assumere la forma umana per apparire nei sogni degli uomini addormentati erano legati all’olmo che per entrambi era pianta sacra.

Virgilio ci parla dell’olmo dei sogni o ulmus somniorum alle cui foglie sono appese torme di sogni fallaci.

Il Petrarca, sicuramente conosceva quei versi, ci parla di un olmo che dalle “fronde sogni piove” mescolando ad arte verità e menzogna.Sonno, sogni, e morte collegati ad uno stesso albero simbolico non potevano non creare un punto focale, un oracolo capace di interpretare e dare segni del volere degli dei.

Plinio riporta un evento eccezionale accaduto quando i Cimbri minacciavano i confini e si temeva un loro ingresso nelle pianure italiche. Da quattro anni gli eserciti romani conducevano in modo assai tribolato una campagna militare segnata da gravissime perdite, ultimo atto l’annientamento di un intero esercito nel 105 a.C.. Nel bosco di Niceria, consacrato a Giunone, si provvide a cimare la cima di un olmo che si protendeva sull’altare. Subito, senza l’aiuto di alcuno, l’albero tornò ad ergersi e immediatamente fiorì.

Le fortune del popolo romano, accompagnate dagli agognati successi militari, si risollevarono.

La giustizia sotto l’olmo

Nel periodo medioevale, soprattutto in Francia, si era soliti piantare fuori dalla porta del castello un olmo. Al riparo delle sue fronde veniva amministrata la giustizia direttamente dal signore del maniero o dai giudici da lui designati. I giudici che non possedevano un tribunale stabile si chiamavano, per estensione, giudici sotto l’olmo.

Francese è anche l’espressione, un tempo assai comune, “aspettare sotto l’olmo”: significa che uno fra i contendenti non ha intenzione di presentarsi al confronto e lascia l’altro ad aspettare nel luogo prestabilito; sotto l’olmo, appunto.

Dopo l’usanza medioevale altri sovrani in tempi più vicini vollero circondarsi di olmi. Enrico IV chiese che le strade del regno fossero fiancheggiate da olmi e ne incoraggio la diffusione così che è possibile datare con una certa precisione, intorno ai quattrocento anni, gli esemplari più vecchi sopravvissuti in Francia.

Per un lungo periodo è rimasta l’usanza relitta di piantare un olmo di fronte alla porta delle case coloniche.

Nel 1526, o intorno a quegli anni, quindi ancora prima, Enrico VIII fece mettere a dimora gli olmi che fiancheggiano il viale del castello reale di Hampton Court.

Fra gli olmi storici ricordiamo l’olmo irlandese di Kildare schiantato da un uragano nel 1776 con una circonferenza di dieci metri capace di coprire con la sua chioma un’area di oltre trenta metri di diametro pari, ricondotta ad un ipotetico cerchio perfetto, a circa 900 metri quadrati.

Salvare gli olmi

Sicuramente salvare gli olmi esistenti è divenuta una necessità.

In quest’ottica deve essere inserito il progetto di salvataggio del patrimonio genetico dell’olmo storico di Montepaone, provincia di Catanzaro, portato a termine con successo lo scorso anno. Ad interessarsi in prima persona è stato l’Architetto Aurelio Tuccio.

L’olmo di Montepaone è considerato da molti l’ultimo Albero della Libertà ed è in condizioni tali da non lasciare prevedere una lunga sopravvivenza. Proprio per salvaguardare e conservare per i posteri il patrimonio genetico di un albero di indubbio valore storico e monumentale il C.N.R. di Firenze ha ricevuto il materiale appositamente raccolto (talee raccolte dall’ultimo accrescimento dell’anno) per inserirlo nella banca genetica, per crio-conservarlo, per riportare i dati dendrometrici e topografici in una banca dati europea che raccoglie tutti gli olmi di particolare interesse del continente, e per procedere alla clonazione così da poter disporre di “piante copia” del vecchio olmo con cui poter procedere alla sostituzione quando finiranno i suoi giorni.

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