Giardino fabbrica di fiori nel Comasco

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Come ha risolto il problema Marta Corvi

Marta Corvi non sarà forse nota al grande pubblico, ma nel suo entourage di appassionati di piante e fiori è quasi un mito. Informatissima (legge tutte le riviste del settore), instancabile lettrice dei 400 manuali inglesi di giardinaggio che tappezzano la sua veranda, competente in ogni settore della flora ornamentale, Marta fa in sostanza tutto. Viaggia all’estero tutte le volte che può, visita le mostre (e se non ci va, ti chiede di acquistarle questo e quello), dispensa consigli pratici, regala le piante in soprannumero, ma soprattutto è un’esperta giardiniera: in altre parole, è un moto perpetuo. Nel suo ruolo di moglie, è stata anche così abile e assennata da aver convinto il marito – un imprenditore comasco tutto concretezza e poche chiacchiere – ad accettare che nella loro proprietà di Figliaro (CO), la villa, una seconda casa, gli stabilimenti e i fabbricati di servizio dovessero in qualche modo farsi in là per lasciare spazio ad una serie di giardini e non viceversa. Un capolavoro di diplomazia e di determinazione, che ha avuto risultati davvero sorprendenti. 

Come si presentava originariamente l’area del giardino?

Si trattava di un prato cui erano annessi un campo coltivato ed un parcheggio, il quale fu poi la parte più problematica, perché pieno di sassi e di terra compattata, che dovemmo rimuovere. Il giardino fu realizzato in diversi momenti, dovendosi adeguare ad una situazione particolare, poiché vi erano (e vi sono) edifici d’abitazione, due fabbriche e un magazzino, con piazzali di manovra per i mezzi automobilistici. Il risultato non è un giardino unitario, ma un puzzle di sei aree, intervallati da slarghi e da stabili.

Come sono stati realizzati?

Non contemporaneamente, ma in modo graduale. La precedenza fu data alle zone annesse alla mia casa d’abitazione; poi, in seguito all’acquisto di terreni confinanti per ingrandire una fabbrica, ebbi modo di sfruttare una parte di quegli spazi per le mie amate piante. Non solo, ma ottenni che una delle due fabbriche avesse un tetto piano ricoperto di terra, in modo da poterlo utilizzare come giardino pensile.

Lei aveva già precedenti esperienze di giardinaggio?

In qualche misura sì, perché sono cresciuta in una grande dimora, che nel Seicento era stata occupata da un convento, circondata da un vasto parco con alberi vecchissimi e anche con specie d’inizio Novecento: ortensie, Hosta e così via, tutte perfettamente curate. I proprietari, nobili milanesi, la frequentavano solo d’estate, così che nel resto dell’anno la vera padrona ero io, la sola bambina a potervi giocare per ore. Fu così che conobbi tutte le “mie” piante e me ne innamorai per sempre. In seguito, mio padre si costruì una casa con giardino, che venne impostato da un bravissimo giardiniere di questa zona, Alberto Coccetti, fra i primi in Italia a introdurre nei nostri ambienti il giardino alpino e il giardino roccioso.

Si fece aiutare dal Coccetti anche per l’attuale giardino?

Sì. Verso il 1980, anche se aveva già cessato l’attività, forse per simpatia volle dedicarsi a questo nuovo impegno. Fin dall’inizio ci trovammo d’accordo, perché entrambi decidemmo di impostarlo in senso informale. Anche se poi ad un certo punto io presi in mano la situazione da sola, ricordo con gratitudine Alberto Coccetti, soprattutto perché egli mi fece conoscere piante molto particolari, che pochissimi in quel momento usavano.

Quali furono le principali difficoltà iniziali?

Il terreno, in realtà, era accettabile, perché aveva ospitato colture e prati. Tuttavia, lo lavorai in modo continuo, perché era un po’ argilloso, sassoso e tendenzialmente alcalino; aggiunsi molta torba, soprattutto là dove erano previste piante acidofile. La presenza d’acqua fu assicurata dal ritrovamento di una sorgente in loco, dando modo di realizzare un pozzo di raccolta, che si rivelò poi utilissimo.

Come affrontò, da sola, l’impostazione botanica del giardino?

Dapprima mi sentii un po’ smarrita, ma poi – anche sull’onda delle letture e dei viaggi in Gran Bretagna – iniziai a dare libero sfogo alle mie passioni, senza più freni esterni. Dai viaggi, in particolare, tornavo con fasci di piante ma soprattutto d’idee. Fu così che, per esempio, realizzai alcuni comparti in pretto stile “inglese”, nel senso moderno dell’espressione, con siepe informale di confine, prato centrale, bordura mista comprendente arbusti sempreverdi e decidui, ma soprattutto numerose erbacee perenni, senza troppo badare alle vecchie regole di “ordine e pulizia”. Fu una gran fatica, perché allora avevo un’attività di lavoro, così che ero costretta a fare giardinaggio solo di sabato e di domenica. Ora che sono libera, lavoro 2-3 ore il giorno.

Lei suggerisce a tutti di adottare uno stile ‘inglese’?

Sì, a mio avviso è realizzabile ovunque, anche in un contesto mediterraneo, ma ovviamente occorre scegliere le giuste essenze, che sono presenti in qualunque ambiente. Il bello del giardino “inglese” è soprattutto l’opportunità di poter combinare e associare tante realtà biologiche diverse, accostando arbusti, erbacee, alberi e così via, giocando molto sulle forme e sui colori che si alternano in modo continuo per tutto l’anno. Non così avviene con il giardino classico formale, assai più rigido e, a mio parere, monotono e un po’ “freddo”.

Com’è, sotto questo profilo, il suo giardino?

Non c’è giorno dell’anno che non si veda spuntare almeno un fiore. L’inverno, a mio parere, è la stagione più bella, in primo luogo perché la scomparsa di molte piante rende il luogo più “umano” e percorribile… Poi ci sono piante adorabili: le Hamamelis, le camelie invernali, la profumatissima Sarcococca, gli ellebori, le bulbose (Galanthus, Leucojum, Cyclamen, Eranthis, Iris unguicularis, una rizomatosa sottovalutata, ma splendida per tutto l’inverno). La primavera, si sa, è perfino troppo ricca, ma io amo alcune presenze particolari, prime fra tutte le rose e i Ceanothus, che qui fioriscono e si sviluppano in modo estremamente rigoglioso, in diverse varietà: C. thyrsiflorus, ‘Concha’, ‘Autumnal Blue’, ‘Italian Skies’, ‘Puget Blue’. Poi le rose…

 

Ho visto soprattutto rose di David Austin, le cosiddette “inglesi”…

Sì, ne coltivo una cinquantina di varietà, con fioriture e portamenti diversi: cespugliose, alte, rampicanti. Per conservarle bene, però, occorre trattarle fin dalla fine dell’inverno. Io uso la cosiddetta “poltiglia bordolese” e anticrittogamici contro la ticchiolatura, che spesso le colpisce.

Torniamo alle stagioni…

Poi c’è l’estate, con le perenni: amo molto i Centranthus, le Coreopsis, le Nicotiana, che formano magnifiche macchie di colore. Infine, l’autunno con una massa di Aster e di bacche d’ogni specie: Cornus, Euonymus, Sorbus, Viburnum, Styrax japonica, Davidia involucrata. Poi ho alcune passioni particolari, come Sanguinaria canadensis ‘Plena’ (rassomiglia ad una piccola gardenia), Gardenia jasminoides nana (che fiorisce per molti mesi e non soffre il gelo), Carpenteria californica (dai luminosi fiori bianchi), Eucryphia x nymansesis e diverse altre ancora.

Ha altri obiettivi da raggiungere?

In primo luogo io penso che il vero giardiniere sia in ogni caso un ottimista, perché non è possibile lavorare in un giardino senza avere grandi speranze e nello stesso tempo disporre di una grande pazienza. Poi penso che gli obiettivi, in giardino, non finiscano mai, perché si vorrebbe conquistare una perfezione che poi non esiste o è irraggiungibile, specialmente in un giardino ‘inglese’. In ogni caso, un mio obiettivo iniziale – quello di ingentilire un ambiente fortemente marcato dalla presenza di case e fabbriche – è stato almeno in parte conseguito. Un corollario che mi ha molto soddisfatto è che molte persone che qui capitavano per lavorare (dirigenti, tecnici, operai), dopo aver passato anni di “indifferenza”, mi hanno gratificato con elogi e soprattutto mi hanno chiesto pareri sul come fare per…

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